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LAVORO IN MINIERA
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Emigrati trevigiani davanti alla miniera 28. Jemoppes (Belgio), 1949. Pro Loco Vedelago
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Il filone di carbone viene aggredito dai martelli pneumatici, col rischio che una scintilla faccia esplodere il gas stagnante nella galleria. Belgio, anni cinquanta. La Valigia, Vicenza.
Nel secondo dopoguerra, scendere nelle miniere del Nord Europa, specie se di carbone, era attività ormai rifiutata dalla popolazione locale, perfino da lavoratori sulla soglia della disoccupazione; non dagli emigranti italiani e veneti che vi venivano indirizzati sulla base di precisi accordi tra i governi. Emblematico e tragico quello con il Belgio, che tra il 1946 ed il 1957 attirò circa 140.000 lavoratori, oltre a 17.000 donne e 29.000 bambini. Quasi tutti vivevano in villaggi di baracche, in condizioni di forte disagio e di isolamento sociale. Nelle miniere troppo profonde e mal attrezzate, gli incidenti erano frequenti: oltre mille i morti e 35.000 gli invalidi in dieci anni, senza contare la silicosi che non ha risparmiato nessuno. Chi accettava un lavoro così disumano, mirava ad un guadagno per sè e ad una rimessa per la famiglia. Ma a trarne i maggiori vantaggi erano i rispettivi governi, quello belga, che sfruttava una fonte energetica non ancora minacciata dal petrolio e quello italiano che riceveva 200 tonnellate di carbone per ogni minatore. L'epopea dei minatori del carbone in Belgio si concluse nel 1956 quando il governo italiano, a seguito della catastrofe di Marcinelle, bloccò le partenze. A Marcinelle morirono 262 minatori: più della metà -136- erano italiani.
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