Nel secondo dopoguerra, scendere nelle miniere del Nord Europa, specie se di carbone, era attività ormai rifiutata dalla popolazione locale, perfino da lavoratori sulla soglia della disoccupazione; non dagli emigranti italiani e veneti che vi venivano indirizzati sulla base di precisi accordi tra i governi.
Emblematico e tragico quello con il Belgio, che tra il 1946 ed il 1957 attirò circa 140.000 lavoratori, oltre a 17.000 donne e 29.000 bambini. Quasi tutti vivevano in villaggi di baracche, in condizioni di forte disagio e di isolamento sociale. Nelle miniere troppo profonde e mal attrezzate, gli incidenti erano frequenti: oltre mille i morti e 35.000 gli invalidi in dieci anni, senza contare la silicosi che non ha risparmiato nessuno.
Chi accettava un lavoro così disumano, mirava ad un guadagno per sè e ad una rimessa per la famiglia. Ma a trarne i maggiori vantaggi erano i rispettivi governi, quello belga, che sfruttava una fonte energetica non ancora minacciata dal petrolio e quello italiano che riceveva 200 tonnellate di carbone per ogni minatore.
L'epopea dei minatori del carbone in Belgio si concluse nel 1956 quando il governo italiano, a seguito della catastrofe di Marcinelle, bloccò le partenze. A Marcinelle morirono 262 minatori: più della metà -136- erano italiani.