Struggenti bellezze
Italo Zannier
Il dossier di questo numero di "Fotostorica" è dedicato a un tema di non facile definizione "sulla donna" - che fu subito tra i soggetti più fotografati, sia al dagherrotipo che al calotipo; specialmente "nuda", secondo un'iconografia antica, ma qui invece come "modello" per artisti, oppure come immagine ardita, per i voyeurs del tempo.
Ardita e realistica, soprattutto; quasi toccabile, nel virtualismo arcaico del dagherrotipo, esplorato eventualmente con la lente di ingrandimento, come si confaceva per l'hi-fi di quel genere di immagine. La fotografia di fronte al suo "realismo", che nel nudo va dal casto all'osceno, perlomeno secondo "il comune (?) senso del pudore". E comunque si infiltra nell'immaginario erotico, come nessun'altra immagine (ma quale?), altrettanto "vero-simile". Dalla dagherrotipia alla oleografia, passando per la stereografia, alla ricerca del doppio della realtà, che in immagine è forse più affascinante, magica, mitica infine, della terrestre corporeità. Con questo dossier non si intende fare la storia di questo "genere" fotografico, d'altronde risaputa e scontata, ma suggerire qualche riflessione sul tema, preferibilmente aldilà dell'impatto sociologico, soffermandosi in primis sulla "Fotografia", come medium della realtà. È un excursus emblematico: dal nudo osée dagherrotipico agli interni newyorkesi di Riis, ai fotomontaggi degli anni Trenta, all'audacia paparazzesca, allo sperimentalismo di "Fabrica", fino al concettualismo di Franco Vaccari sul notturno della Via Emilia. Ma con un inedito eccezionale: alcune fotografie d'interno dell'ultima "casa di tolleranza" di Treviso, ritrovate da Adriano Favaro e qui commentate da un testo di Giovanni Comisso. E poi i testi significativi di Carla Corso e di Franco Vaccari, mentre le immagini vanno, come tutte, lette "tra le righe", oltre il documento che la fotografia sembra sempre proporre programmaticamente; ci sono le atmosfere della cultura del nostro tempo.
Giovanni Comisso e le uitime fotografie del casino di Treviso
Adriano Favaro Ventidue anni fa moriva la senatrice Lina Merlin che si era guadagnata memoria perenne con la legge sulla chiusura delle case di tolleranza che porta il suo nome, la L. 75 del 20 febbraio 1958. Era dunque il 1958 quando anche a Treviso per i cosidetti "casotti" finiva un'epoca. A testimoniare la loro fine ci fu un cronista d'eccezione: lo scrittore Giovanni Comisso, il quale, facendosi accompagnare da Bepi Fini, maestro della fotografia, erede di uno degli studi trevigiani di maggior fama, e da Remigio Forcolin, direttore del periodico trevigiano "Cagnan", si reca a visitare per i'ultima volta uno dei "lupanari" più in vista di Treviso, la casa Dozzo in via Marzolo, laterale di via Roggia, posta in una palazzina di tre piani, per l'epoca assai moderna. Accompagnati dal proprietario del casino, il signor Mario, Comisso, Fini e Forcolin, osservano per l'ultima volta quel tempio dell'amore mercenario. Nei suoi ultimi anni di vita Fini aveva ancora vivissimo il ricordo del 20 febbraio 1958 quando, assieme a Comisso, si recò al casino allo scadere del tempo per la sua definitiva chiusura. Per Comisso e Fini era chiaro che si trattava di un momento storico ed il fotografo fissa sulle sue lastre fotografiche quegli ambienti irripetibili, letti in ferro e classici dipinti erotici alle pareti, che ritroveremo esattamente descritti poi da Comisso nella sua opera Satire Italiane, edita dall'editore Longanesi, curiosamente possessore di una vastissima raccolta di immagini di prostitute. Scrive Comisso che "...ad ogni stanza il padrone vantava la perfezione dei servizi igienici, ma tutto era freddo, pietrificato, congestionato, come se l'acqua si fosse ghiacciata nelle tubature e sbavature di ferro macchiavano le porcellane. I materassi stavano rivoltati a ogni letto che scopriva il traliccio elastico di acciaio. Lo squallore ed il freddo che veniva dalle finestre aperte sulle imposte chiuse rendevano quelle stanze più antiche ancora dei postriboli di Pompei...".
Comisso cercò di calcolare quanti piedi avessero salito quelle scale dal lontano 1913 in cui venne aperto, fino alla chiusura. A fare il conto per lui fu l'amico Remigio Forcolin, che garantì almeno sette milioni e mezzo di ascese di quelle scale dell'amore mercenario. Di quel mondo rimane oggi testimonianza solo nel registro del casino, un album fotografico (oggi proprietà di un anziano editore trevigiano), dove accanto alla fotografia di ognuna delle prostitute venivano annotate anche le generalità: si trattava non solo di professioniste, come testimoniava il fotografo Bepi Fini, ma anche di commesse, impiegate e signore della Treviso borghese che di tanto in tanto, su chiamata, si recavano al casino di via Marzolo. Lo studio che, tra le due guerre mondiali, aveva eseguito i tanti ritratti presenti in quell'album, era proprio quello dei Fini, Umberto prima e Giuseppe Fini poi, e l'attività di quest'ultimo proseguì sino alía fine degli anni '80. Per una prostituta, un ritratto artistico era necessario per presentarsi adeguatamente e nello studio Fini, lontano poche decine di metri dal casino di via Marzolo, trovava esperienza nel ritratto e abilità nel dissimulare fotograficamente eventuali difetti del volto: quando l'archivio dello studio Fini passò al Foto Archivio Storico Trevigiano, Giuseppe Fini non volle concedere la parte di archivio che riguardava i ritratti, in particolare quelli delíe prostitute: per giorni i suoi dipendenti e lui stesso frantumarono sotto ai piedi centinaia di lastre fotografiche, anche di grande formato, per poi gettarle neíla spazzatura. Uno dei tanti ritratti eseguiti nello studio, particolarmente curioso, è ricordato dai dipendenti di Fini: si trattava di una signorina che si volle far ritrarre con in mano un vassoio col quale sosteneva i suoi prosperosissimi seni. Delle tante lastre fotografiche negative, relative a ritratti di prostitute e accumulate nei decenni, solo una pervenne all'Archivio: si tratta di una lastra fotografica b/n, formato 13x19 cm, che ritrae probabilmente Maria "orbetta" (il condizionale è d'obbligo) notissima a Treviso nel primo dopoguerra. Ad una delle tante prostitute che esercitarono nel casino di via Marzolo, una formosa ragazza proveniente da un paesino vicino a Maserada sul Piave e soprannominata "Gemma del ristoro", Remigio Forcolin, a nome anche dei suoi amici, il 27 maggio 1943 dedicò un lungo componimento poetico che terminava con un inno in suo onore: "Dal casino di Madama/ Canteremo tutti in coro/ Viva Gemma del ristoro".
COMISSO DESCRIVE L'ALBUM FOTOGRAFICO DELLE PROSTITUTE DEL CASINO DI TREVISO
"Gli chiesi di farci vedere il grosso libro che aveva portato. Questo è come il mio libro di bordo, disse, ma non posso mostrarvi tutto. Qui, da quando mia madre aperse la casa nel millenovecentotredici, vi sono elencate tutte le signorine che vi ànno lavorato. Istantaneamente fummo attratti da quel libro aperto e ci alzammo per metterci accanto al signor Mario. Era un'eccezionale documentazione. Vi erano scritte le generalità di ogni signorina, col rispettivo nome di battaglia, nomi che ricordavano anni lontani. Wanda, Sonia e Maruska in omaggio ai romanzi russi che si leggevano allora negli anni della prima guerra, quando ufficiali e soldati venivano in quella casa, che era nelle retrovie del fronte, per cogliere forse l'ultima ebbrezza della loro vita. Accanto erano incollate le fotografie delle signorine, acconciate secondo la moda di allora, languide negli occhi cerchiati d'azzurro e coi capelli tagliati corti. Alcune di queste fotografie le rappresentavano ignude, altre vestite succinte. Interposte alle pagine vi era qualche lettera, scritta da loro per presentarsi e per vantare le loro abilità. Qualcuna dichiarava, con una calligrafia infantile, d'essere "di tipo bolognese", altra, "una cavallona in stanza" e molte altre, "tipo triestina". Si sentiva battere il ritmo della storia. Trieste era stata liberata da poco. Il dopoguerra ispirò altri nomi: La Russa, La Viennese, ma quando si giunse all'epoca della marcia su Roma il signor Mario si fece più guardingo occultando con la mano aperta il centro della pagina, però si riuscì in qualche punto a vedere quello che ci voleva nascondere. Erano annotazioni particolari come: "raccomandata dal federale di Milano" oppure "raccomandata, dal seniore della milizia di Brescia" e altre ancora. La storia d'Italia seguiva il suo corso nelle pieghe più segrete. Si giunse ai nomi di battaglia aderenti alla nuova epoca: La Balilla e Moschettiera, fino a quelli di Negretta, Beduina e La Negus che avvertivano della conquista dell'impero. Poi vi fu l'intermezzo della guerra di Spagna con tante Carmen e Lolite, per precipitare negli anni della seconda guerra mondiale, dell'invasione tedesca, dei bombardamenti aerei, ma la casa continuò a funzionare sempre e le donne si chiamarono Lilì Marlen e Frida. All'arrivo degli alleati si dipinse accanto alla porta un marchio inusitato: Out of bonds, che vietava l'ingresso a quei soldati in divisa, i quali come per vendicarsi si appoggiavano al muro di quella casa per singultare nel vomito, provocato dal pessimo vino bevuto in una bettola attigua. Le donne allora si chiamarono Mary e Miss, ma infine la vita riprese il suo passo regolare, per arrivare a questi anni ultimi in cui circolarono i nomi semplici e cristiani di Rita e Pia. Il libro venne chiuso e il signor Mario vi posò un braccio sopra come per preservarlo dalla nostra curiosità che non voleva cessare."