2002 - Fotostorica 17/18 - Aprile 2002 Dossier: La sublime montagna dei fotografi

 
 
 
 
 
 
 
Riccardo Moncalvo Movimento di danza - 1958

La sublime montagna dei fotografi
Italo Zannier

Un prologo in memoria di Ansel Adams:
“Come sarebbe stata diversa la mia vita se non fosse stato per le gite da ragazzo nella Sierra, se non avessi conosciuto l’esperienza di quel primo memorabile viaggio nello Yosemite, se non fossi cresciuto in riva all’Oceano – se, se, se! Tutto ciò che ho fatto, tutte le emozioni che ho provato sono state influenzate dall’impatto con lo spettacolo della natura (...) Ho conosciuto il mio destino già dalla prima esperienza nello Yosemite Park”.
(A. Adams, L’autobiografia, Zanichelli, Bologna 1963, p. 67)

 

Adams ha amato la montagna – emblematico soggetto delle sue più memorabili fotografie –, così come il nostro Vittorio Sella, creando un arco significativo nella storia della fotografia, dall’Ottocento al Novecento, dalle Alpi allo Yosemite, ma coinvolge addirittura il pianeta – con il K2 nell’Himalaya, il Sant’Elia in Alaska, il Ruwenzori, il Karacorum... –, visitato dal pioniere Sella, durante eroiche escursioni scientifiche e antropologiche.
In America, prima di Ansel Adams, l’avventura fotografica nelle montagne, era stata di O’Sullivan, Jackson, Muybridge, tutti al seguito delle spedizioni geografiche, delle imprese ferroviarie, e anche dei cercatori d’oro.
Scoprirono territori inesplorati, convincendo della loro bellezza, mediante la fotografia, senatori e amministratori, che non si sarebbero mai avventurati, tra orsi, pellerossa e tormente di neve, ad esempio, nel mitico “passaggio a Nord-ovest” del Nord America.

 

Adams, sollecitato dal grande storico Newall (e più informato dei cronisti nostrani), quando morì Vittorio Sella (1859-1943), scrisse un articolo d’elogio, che venne pubblicato nel dicembre 1946 nel “Sierra Club Bulletin”.
E diceva, Adams: “la vastità del soggetto e la purezza delle interpretazioni di Sella commuovono colui che le guarda fino alla soggezione religiosa (...) Sella non ci ha descritto solo i fatti e le forme di splendori irraggiungibili del mondo, ma ci ha dato l’essenza dell’esperienza che trova un responso nei recessi interiori della nostra mente e del nostro cuore”.
Per essere fotografi di montagna, bisogna essere anche scalatori, e questo binomio significa molto, non soltanto per il coraggio e la forza fisica, ma pretende l’acutezza dell’occhio, la capacità di percepire il significato delle forme e delle luci, e delle strutture naturali, che il fotografo infine memorizza in un’immagine, che spesso è irripetibile, oltre che testimone suggestiva di spazi e di bellezze naturali, che sembrano aliene, a volte come la Luna.
E così sembrarono le prime fotografie di montagna, come quelle del Monte Bianco, ripreso al dagherrotipo da Frederick von Martens, sebbene con scarso successo, nel 1844 quando tentò l’ascensione con lo scienziato Bravais.
Prima di Martens, e comunque prima dell’invenzione della fotografia, ma con una “camera lucida”, uno strumento ottico che di per sé garantiva un “disegno a ricalco” (tracing), su quel soggetto si era cimentato sir John Herschel, nel settembre 1851, riprendendo il ghiacciaio di Zermatt (“The ice of Zermatt”).
L’alta montagna – e in Europa la più alta è il Monte Bianco –, era ancora da scoprire nel suo complesso paesaggio, ed era stata scalata per la prima volta nel 1787 dal de Saussure.
Il fascino del suo ambiente sembrava irraggiungibile, se non in immagine, con vette e ghiacciai visti però “dal basso”, e comunque da non oltre i duemilocinquecento metri, per i comuni scalatori, come molti fotografi.
Da lì Ruskin, dopo una prova nel 1849 verso il Cervino, commissionò nel 1854 al suo aiutante, Frederick Crawley, alcuni dagherrotipi del ghiacciaio di Chamonix, tuttora conservati negli Archivi delle Ruskin Galleries.

 

Il Grand Tour, in effetti, iniziava dalle Alpi, per poi scendere, come nelle Excursions daguerriennes di Lerebours, verso i luoghi del Sole, più favorevoli anche alla fotografia, oltre che alla salute; scendere dalle Alpi era come fuggire dalla malia di un infernale paesaggio di ghiaccio.
Von Martens, che si vorrebbe veneziano di origine, ritentò comunque l’impresa nel 1855, realizzando finalmente una sorprendente panoramica, ottenuta collegando dodici fotografie al collodio del massiccio del Monte Bianco, in un’opera poi esposta all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, dove venne molto elogiata.
“Solo la fotografia poteva realizzare la riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare i loro ghiacciai...”, commentò allora il cronista de “L’Illustration”, la grande rivista di immagini, che pochi anni dopo (21 dicembre 1861) presentò le vedute alpine, quasi di cronaca, eseguite dei fratelli Bisson, al seguito dell’Imperatore Napoleone III e della consorte Eugenia, che infagottati, assieme a membri della Corte, attraversarono perigliosamente quei crepacci lunari.
La curiosità per i luoghi alpini fu così grande, che gli editori di cartoline, produssero subito alcune serie di vedute, tra le quali, in stereoscopia, le immagini di William England, in concorrenza con quelle della ditta Underwood.
Vittorio Sella – figlio di Venanzio, autore del “Plico del fotografo”, nel 1856, che è il secondo manuale di un italiano, dopo il “Trattato” di Giacomo Caneva, che è del 1855 –, fotografo e alpinista, come d’altronde tutti i Sella, a cominciare dallo zio Quintino, il Ministro, e poi dal parente Guido Rey, eseguì una grande panoramica delle Alpi, dalla vetta del Monte Mars, all’altezza di 2600 metri, nel 1879, quando però la fotografia già serviva anche per definire la topografia del territorio, e non soltanto come spettacolo naturale.
La fotografia “di montagna” cominciò ad avere anche un “mercato”; se nei cataloghi dei fotografi ottocenteschi compaiono varie serie di vedute alpine, come nell’elenco del pioniere trentino Gianbattista Unterveger (1834-1912), che registrò sistematicamente, in mille vicissitudine poi narrate nel suo diario del 1904, le montagne del suo territorio, negli anni Settanta dell’Ottocento.

 

Nel frattempo, il turismo – non soltanto in bicicletta, ma d’alpinismo –, si sviluppava, ed era immancabile l’apparecchio fotografico, sempre più piccolo e maneggevole, riposto nel bagaglio; “se il mare ha i suoi innamorati – scriveva Tranquillo Zanghieri in un fortunato vademecum sulla “Fotografia turistica” (1908) –, la montagna non ne ha meno, né meno tiepidi...”.
“Come il mare – continuava Zanghieri – l’Alpe diventa, in un istante, sublime di bellezza o sublime d’orrore. Come presenta una tal profusione di forme inattese, un lusso così sfarzoso d’effetti maestosi che lo spettatore, anche il più prevenuto, resta muto e vinto davanti alla grandezza dei suoi quadri...”.
La montagna avrà da allora, tra i suoi eroi, anche innumerevoli fotografi, con la vocazione dell’alpinismo accanto a quella della “nuova arte”; da Guido Rey a Cesare Giulio, dai fratelli Pedrotti a Riccardo Moncalvo, a Lallo Gadenz, Ezio Quiresi, e via fino ai Merisio, Mario De Biasi, Walter Bonatti, Lino Marini... Bepi Mazzotti, tutti invaghiti dell’incanto sublime delle vette, dei crepacci, e infine delle “forme” che la natura offre con inesauribile generosità, in bianco-nero e a colori, tra le luci dell’alba e quelle del tramonto.
E oggi anche la luce della notte, se il fotografo ardito sa attendere il silenzio di un’immagine, che si forma con inesorabile lentezza sullo schermo della sua sempre più ipersensibile camera.

(Si ringrazia l’editore Pellegrinon, per il prestito di alcune immagini di questo Dossier.)

 

Giuseppe Mazzotti, fotografo e alpinista
Adriano Favaro

Della grande quantità di fotografie del Fondo Fotografico di Giuseppe Mazzotti (1) una in particolare, che racconta di una grande tragedia della montagna, ha costituito l’oggetto di un mio personale interesse e puntuale ricerca, infruttuosa fino a poche settimane fa, quando la fotografia è stata finalmente ritrovata tra le immagini di montagna che Anna Mazzotti, figlia di Giuseppe, ha concesso al F.A.S.T. per la riproduzione, ma i cui originali sono poi destinati, per sua volontà, al Museo della Montagna di Torino. Si tratta di una fotografia ricordata da Giuseppe Mazzotti nella sua opera Grandi imprese sul Cervino (1944, Ed. L’Eroica), monte del quale Mazzotti nel 1932 scala la parete Est. L’anno dopo, nel 1933, l’amico Amilcare Crétier (fratello di Nerina Crétier, che dal 1937 diverrà poi moglie di Mazzotti), assieme a due compagni ( Antonio Gaspard e Basilio Ollietti) precipita proprio al rientro da una nuova via sul Cervino, era il 6 luglio 1933. Nel suo sacco, scrive Mazzottti, fu trovata “la macchina fotografica con una pellicola impressionata. Cinque fotografie erano state prese durante la salita. Nella prima si vede la parete del Pic Tyndall, da sotto in scorcio, quasi dal punto stesso dove fu trovato il sacco. Nella seconda la Testa e il Colle del Leone, dalla cresta De Amicis.
Nella terza le rocce della Gran Torre, la capanna Italiana. Nella quarta la cresta di Furggen”.Quando, più tardi, di fronte al fuoco di un camino, Mazzotti osserverà queste immagini che gli ricordavano il caro amico Crétier, attraverso le sue lenti da miope noterà con particolare intensità e dolore i particolari di una fotografia, l’ultima di quella serie.Scriverà: “...nell’ultima (fotografia) si vedono Gaspard e Cretiér addossati ad un mucchio di neve. È mossa e sfocata... Crétier è in piedi, dietro a Gaspard. Anche lui appare stanco. Appoggia il gomito sinistro alla neve, sopra un altro sacco. Tiene una sigaretta fra le dita. Si scorgono chiazze di neve e rocce lontane, confuse. Ogni cosa è avvolta da un’aria che ricorda certe albe grigie dopo qualche bivacco. Forse avevano bivaccato in quel posto. Sulla pellicola non c’era altro”. Pochi passi dopo gli scalatori precipitano.

 

Mazzotti avrebbe voluto certo ricavare altre informazioni, attraverso la forza evocativa di quella semplice immagine colta all’alba da alpinisti sfiniti dalla fatica, ma quella fotografia mossa, sfocata, nella quale era lontano ogni intento artistico, poteva però restituirgli ben poco dell’amico perduto. Alla mente scorrono per analogia altre immagini, un’altra storia, quella dello scalatore Mallory che negli anni ‘20 perse la vita precipitando durante la scalata dell’Everest: in questi anni, ritrovatone miracolosamente il corpo, si cerca proprio la sua fotocamera Vest Poket Kodak, che potrebbe contenere le immagini di quella ugualmente drammatica ascensione. Anche la macchina fotografica di Amilcare Crétier era una Vest Poket Kodak (macchina fotografica folding per pellicole 4,5x6 cm e rollfilm da 127 mm, il cosidetto formato lungo, in commercio dal 1912 al 1935).Si trattava di un apparecchio di ridotte dimensioni e, si scriveva in una reclame del 1915 ( La Domenica del Corriere n. 26 del 27 giugno - 4 luglio 1915 ), “dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo”, mentre sulle pagine dell’ Illustrazione Italiana lo stesso apparecchio viene vivamente consigliato ad “ogni ufficiale e soldato” e, nell’immagine relativa, un alpino, tra montagne innevate impugna la piccola fotocamera. (Illustrazione Italiana n. 30 del 25 luglio 1915).

 

Giuseppe Mazzotti si accostò alla montagna giovanissimo, divenendo esperto scalatore.Scrive Pietro Rossi che ”Bepi Mazzotti come arrampicatore ha provato di persona le emozioni, le gioie, le ansie, le fatiche, i rischi delle ascensioni difficili(2).
L’amore per la montagna lo spinse a dar vita a numerose opere fotografiche e letterarie di soggetto alpino.
Se queste ultime lo pongono tra i più importanti scrittori del genere in Europa, (ricordiamo La Montagna presa in giro , 1931 - Grandi imprese sul Cervino, 1934 - La grande parete, 1938 - Introduzioni alla Montagna, 1946 - Alpinismo e non alpinismo, 1946 ecc.) la sua febbrile attività fotografica merita senza dubbio una maggiore attenzione di quanto permette il limitato spazio del presente intervento. Ci limitiamo pertanto, in nota, ad una sommaria indicazione in merito rinviando ad un successivo momento ulteriori approfondimenti (3).

 

NOTE

1-Nacque a Treviso il 18 marzo 1907. Il suo archivio personale che consta di oltre 125.000 immagini, per la maggior parte opera sua – una gran quantità di queste immagini ha per soggetto la montagna – è oggi custodito presso il F.A.S.T.(Foto Archivio Storico Trevigiano). Le macchine fotografiche proprietà di Bepi Mazzotti furono:-La Vest Poket Kodak Camera folding per pellicole 4,5x6 cm e rollfilm da 127 mm (il cosi detto formato lungo) in commercio dal 1912 al 1935 -Una Folding Kodak pellicole da 120 mm - Due Super Ikonta con soffietto retrattile medio formato 4,5x6 cm, obiettivo Tessar (Bruno De Adamo, fotografo dello storico Studio Fini, il cui titolare era amico di Mazzotti, ricorda che il soffietto di tela delle Super Ikonta si fessurava spesso e così doveva ripararlo con nastro adesivo).-Una Rolleiflex biottica, pellicola formata 6x6 cm che veniva usata da Mazzotti quasi esclusivamente per le diapositive, visto che aveva incorporato l’esposimetro.

2- Pietro Rossi, prefazione a G. Mazzotti, La Montagna presa in giro, pag. VII, Ed. Nuovi Sentieri, Bologna 1983.

3- Troviamo Mazzotti esporre numerose sue opere fotografiche relative alla montagna ad esempio nel 1951 alla Prima mostra di fotografie di montagna, organizzata dal Club Alpino Italiano, Sezione di Treviso nella Sala Buosi, via XX settembre, Treviso ( 3-18 novembre 1951). Vennero esposte fotografie di montagna degli autori Guido Botter, Renato Cappellari, Adriano Cason, Giorgio Da Ros, Bruno Desidera, Pietro Fantinelli, Giuseppe Gasparotto, Luciano Levada, Salvatore Lucchi, Teliene Maggio, Antonio Menegazzi, Antonietta Ninni, Guido Pasqualin, Luigi Pegorer, Paziente Pol, Alberto Ragazzi, Giobatta Torresini, Marco Vasconetto, Rino Vasconetto, Carlo Zanirato, Bepi Mazzotti (buon ultimo perchè organizzatore della mostra e, quindi, fuori concorso)I titoli delle fotografie di Bepi Mazzotti esposte furono: Buon sole al rifugio; Il deserto; Sera a Passo Rolle; Cima Tosa; Gruppo di Brenta; Tita Piaz; L’Allée Blanche (Aiguille des Glaciers); Lago di Villa Welsperg: Alberto Raho sullo strapiombo di Gianvell; Sulle Placche del Dente; Saluti dalla Sentinella (Popera); Discesa dalla Sentinella; Alba in Dolomite; Cordate al Monte Bianco; Al Dente del Gigante; E dopo? (parete ovest della Cima Canali-Pale di S. Martino); Nebbia in Val Canali (rifugio Treviso); Nuvole al Gross Glockner; Scalatrice in erba; Cheneil; Fontana a Ferleiten; Cucina al campo; Il barometro dei Monzoni (Passo San Pellegrino); Cervino all’alba; Freddo a Cortina; L’uomo e la montagna (Croda del Toni); Incendio al Sassolungo; Notturno alle Cinque Dita; “Rendez-vous” in Popera; Sole a Cortina; Il redivivo; Torri del Vajolet in primavera; Discesa a corda doppia (Campanile di Val Montanaia); Aconcagua (parete sud).

 
 

Treviso, 17 novembre 2010

 

 
 
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