2004 - Fotostorica 29/30 Dicembre 2004
L'archeologia industriale nel Veneto
A cura di Adriano Favaro
Per conoscere la storia della nostra industria veneta Ermanno Serrajotto
0ggi, in un momento in cui il Veneto deve confrontarsi con le nuove tecnologie informatiche ed i processi di giobalizzazione dei mercati, non dobbiamo perdere le tracce dei nostro passato industriale: esso costituisce una componente essenziale per capire il Veneto contemporaneo, e va raccontato e fatto comprendere alle giovani generazioni. Nel Veneto infatti i più rapidi cambiamenti, nel corso degli ultimi cento anni, sono intervenuti proprio nel settore dell'attività industriale ed ancora sono in divenire. Se il Veneto attuale è oggi caratterizzato da un elevato grado di prosperità e di benessere va tuttavia ricordato che non è sempre stato cosi e non possiamo dimenticare come il cammino sia stato difficile e sofferto. Proprio i manufatti industriali che costellano il nostro territorio stanno a dimostrare l'ingegno e la capacità creativa dei veneti e sono la visualizzazione concreta della loro operosità. Nasce da qui l'esigenza di salvare almeno le immagini relative alle prime fasi dell'industrializzazione e alle successive trasformazioni, testimoniando nel contempo il degrado a cui sono stati destinati gli insediamenti industriali dismessi: un'opera di salvaguardi nella quale si sono distinte diverse realtà dei Veneto, archivi fotografici e biblioteche. Nelle pagine di questo Dossier speciale sull'archeologia industriale, attraverso la riproduzione delle vecchie foto, troviamo anche le testimonianze visive dell'immane sforzo umano che l'industrializzazione ha comportato, della presenza e del ruolo di imprenditori, tecnici e operai che con il loro lavoro ci hanno permesso di giungere all'attuale benessere economico. Questo speciale Dossier di Fotostorica serve dunque a far conoscere meglio la nostra storia ed il nostro patrimonio urbanistico, inducendo inoltre all'auspicio di un miglioramento della normativa che deve tutelarlo: spesso gli edifici industriali hanno indubbio valore architettonico, ma appare evidente come non siano ancora adeguatamente protetti.
Il processo di elettrificazione della regione porta indubbiamente il segno di Giuseppe Volpi e della SADE (Società Adriatica di Elettricità) di cui Volpi fu a lungo presidente. La SADE costituita da Volpi nel 1905 con alcuni personaggi dei mondo economico veneziano (Papadopoli, Revedin, Corinaldi) iniziò la sua attività con l'acquisto di alcuni impianti a Belluno, Cividale e Palmanova. Nel giro di pochi anni, grazie anche all'opera dell'ingegnere Achille Gaggia, chiamato da Volpi a dirigere tecnicamente la società, la SADE, attraverso una politica di acquisizione di piccole centrali locali, giunse a controllare un'area che andava dai confini orientali dei paese fino a Verona e a Bologna. Questo indubbio successo portarono gruppi nazionali come la Commerciale e la Bastogi ad entrare nella società, affiancati da la finanziaria di Zurigo, Eiektrobank. A metà degli anni '20, la SADE aveva già raggiunto una dimensione di primo piano tra i grandi gruppi elettrici italiani. Intorno alla società madre si trovavano riunite quattro o cinque aziende produttrici tra cui nel Veneto (la Società Elettrica Trevigiana e la Società Elettrica dei Brenta) e una ventina di società distributrici la cui denominazione evoca le molte aree servite nella Venezia Giulia, nel Friuli, nella Venezia Euganea, nella pianura emiliana e romagnola. Tra i primi interventi di grande consistenza va ricordato il sistema Pieve-Lago di S. Croce, progettato dall'ing: Vincenzo Ferniani e dal giovane ingegnere Carlo Semenza. Il sistema comprendeva le centrali di Fadalto (1913-14) dei Nove vecchia e nuova (1915 e 1924), S. Fioriano (1919) cui si aggiunsero negli anni successivi Castelletto (1923), Caneva (1927) e Livenza (1930).
Archeologia industriale e antiche tecniche di stampa fotografica
Archeologia industriale: i luoghi della produzione di ieri Federico Burbello
L'industrializzazione, in Italia, è avvenuta in maniera disomogenea e frammentaria e quasi con un secolo di ritardo, rispetto agli altri paesi europei, a causa della situazione politica e dell'arretratezza economico-sociale. Tuttavia, già a partire dalla metà dei Cinquecento, sono presenti, soprattutto in Veneto, Lombardia, Emilia e Toscana, attività manifatturiere considerate forme di produzione preindustriale in particolare per quanto riguarda il settore della seta.
Accanto al patrimonio storico-artistico, più noto, si affiancano dunque anche questi manufatti architettonici della prima industrializzazione, meno conosciuti, che pongono attualmente, agli amministratori e alle comunità, problemi di conservazione, riuso, valorizzazione ambientale e paesaggistica. In particolare gli edifici proto-industriali, alla luce degli attuali problemi urbanistici che condizionano lo sviluppo della città, rivestono una grande importanza. Situati in punti centrali e nevralgici degli agglomerati urbani, in quanto sorti prima della espansione dei centri, oppure limitrofi alle grandi vie di comunicazione (terrestri o fluviali), hanno dimensioni tali da poter ospitare molteplici funzioni e non sono strettamente soggette a vincolo. Il recupero già avviato di alcuni notevoli esempi di siti archeologici da una parte evidenzia il grande fascino che esercitano questi complessi, dall'altra pone il problema di un loro corretto riuso (2). L'archeologia industriale quindi può essere un'occasione reale di arricchimento culturale ed il recupero di questi "reperti" il modo migliore per collegare il nostro passato industriale alle possibili opportunità di progresso futuro. Qual'è la differenza tra i "luoghi di produzione" di ieri e quelli di oggi? La fabbrica c'è ma non si vede più: forme esterne e abiti da lavoro non lasciano più distinguere lo stabilimento dal supermercato, l'operaio dal capo; egli edifici si somigliano al punto che quello dolciario non si distingue da quello dell'auto (3). Facile quindi, con queste premesse, comprendere il ricorso alla costruzione di capannoni prefabbricati, funzionali, economici, quasi sempre inadatti ai luoghi e ai nostri paesaggi: scatole sorde, vetri riflettenti, case costruite sul tetto delle fabbriche, laboratori-showroom-negozi-case-orti, rappresentano ormai il più importante elemento di trasformazione e consumo dei nostro territorio (4). In questo momento le forme, assunte dalla diffusione dell'insediamento (residenziale e ancor più industriale) e i modi, assunti dalla mobilità nell'area veneta, sono arrivati al limite oltre il quale sono a rischio quei caratteri originari, quelle stratificazioni storiche, quei patrimoni dell'identità (urbana, paesaggistica, antropologica) che hanno reso possibile il decollo e accompagnato il travolgente sviluppo degli anni sessanta e settanta dei XX secolo (5). Per il nostro territorio, "immenso deposito di fatiche", è il tempo della metamorfosi. Quello che un tempo si creava con l'intervento di intere generazioni di uomini, ora gli stessi possono ritrovarsi a cambiarlo, rifiutarlo, non riconoscerlo.
La registrazione di questi cambiamenti avviene anche attraverso le immagini e nel campo della conservazione della fotografia, intesa come mezzo di salvaguardia della memoria storica. A questo proposito il Foto Archivio Storico Trevigiano della Provincia di Treviso rappresenta una realtà unica nel Veneto. Il nuovo fondo iconografico sull'archeologia industriale, avviato nel 1998 (6), ha visto la partecipazione e il contributo di numerosi fotoamatori, collezionisti, operatori culturali, archivisti di enti pubblici e privati, suscitando una notevole sensibilizzazione su un tema, fino ad allora poco sentito e approfondito, ma di rilevante interesse per la storia della cultura imprenditoriale ed operaia. Le foto che costituiscono il fondo iconografico, in parte riprodotte in questo numero di "Fotostorica", assumono uno straordinario valore documentativo in quanto illustrano, nei particolari, l'interno delle fabbriche con le macchine e la manodopera al lavoro mettendo in evidenza i processi produttivi, i rapporti sociali, le condizioni di vita di un epoca.
NOTE
Archeologia industriale nel Fondo Fotografico Tomaso Filippi A cura dell'Ufficio Conservatori dei Patrimonio storico-artistico I.R.E.
Tomaso Filippi (1852-1948), dopo gli studi all'Accademia di Belle Arti di Venezia, entra a far parte giovanissimo dello stabilimento Carlo Naya, allora uno dei più celebri atelier d'Europa, dove rimane - prima in qualità di tecnico-operatore e poi, per lungo tempo, di direttore - fino al 1895, anno in cui apre un proprio laboratorio e un negozio in Piazza S. Marco. La produzione più ingente di uno stabilimento fotografico ottocentesco è quella legata al vedutismo. La ricerca di continuità con la tradizione pittorica (che opprime per lungo tempo la specificità dei mezzo fotografico e ne allontana il riconoscimento ufficiale come arte autonoma) porta ad acquarellare le immagini con abbondanza di particolari romantici che meglio si adattano ad accompagnare il ricordo di Venezia. Pur all'interno di questa tradizione, lo sguardo di Filippi tradisce una tensione moderna nella ricerca di situazioni nuove, punti di vista meno codificati e riprese più animate, fatto dei tutto evidente nella produzione privata realizzata nel corso della sua vita con macchine leggere e portatili e di cui la sezione dedicata al territorio chioggiotto è l'esempio più significativo. Qui le intuizioni, l'immediatezza, l'originalità compositiva, la scelta dei soggetti e delle situazioni, la ricerca di movimento e spontaneità danno prova di modernità e sensibilità dei tutto straordinarie per il tempo che avvicinano il fotografo veneziano alla vivacità dei primo fotogiornalismo storico e all'impegno della fotografia sociale americana. Filippi si dedica inoltre a svariate commissioni, come la documentazione di eventi di cronaca per riviste illustrate dei tempo e la riproduzione di opere d'arte. Celebre in città per stile e abilità tecnica, è infatti a lui che sui rivolgono numerosi studiosi, artisti, industriali e semplici privati. Per molti anni egli è il referente dei Civici Musei, delle Regie Gallerie nonché il fotografo ufficiale delle prime edizioni dell'Esposizione Internazionale d'Arte (la futura Biennale). Le 7760 lastre che compongono il fondo dei negativi, insieme con un campione di Positivi, sono state catalogate e sono ora comodamente consultabili on line all'indirizzo www.cgsi.it/ire. Il compietamento della catalogazione dei fondo positivi, che conta 20.000 immagini, verrà portata a termine nel corso dei prossimi anni.
Archeologia industriale nel Foto Archivio Storico Trevigiano La grapperia Nardini al ponte di Bassano del Grappa
Treviso, 2004 - Fotostorica 29/30 Dicembre 2004 L'archeologia industriale nel Veneto
|